Precarietà: un’introduzione. Movimenti propedeutici per danzare dopo la caduta

a cura di Genealogie del Futuro

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Refusi

di Benedetta Manzi

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ALEPH

appunti per una consapevolezza spazio-temporale 

di Roberto Casti

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«Dance, to the radio!»
Futuri epilettici, tempi precari, la danza di Ian Curtis

di Marco Bellinzona

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Il punctum di Kleant

di Virginia Maciel da Rocha

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Labirinto: l’anti paradiso

di Arianna Tremolanti

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Precarietà

di Lorenzo Bonaccorsi

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The Lady Bo Show
Appunti di una giornata sospesa

di Anna Maconi e Caterina Nebl

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Napua NakapuaNuvole Pure

di Davide Robaldo

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Il cerchio delle streghe

di Selene Ghiglieri

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Latimeria

di Pierluca Esposito

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Gasping, dying, but somehow still alive

di Gianluca Tramonti

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ANIMALE

di Michele Damna

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 Sweating Cave Pages

di Traian Cherecheș

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“Non fare” come atto di resistenza alla società della prestazione

di Sofia Rasile

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Cronache di fantasmi al margine

di Olivier Russo e Silvia Ontario

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sette fiamme per rinascere

di Stefano Ferrari

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Bibliografia, sitografia, filmografia

per approfondire

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Pieter Bruegel il Vecchio, Danza di contadini, 1568 ca. © Wikimedia Commons

Precarietà: un'introduzione. Movimenti propedeutici per danzare dopo la caduta

a cura di Genealogie del Futuro

La parola “precarietà” (da prex, precis: preghiera, implorazione, supplica) indica qualcosa che è soggetto a subire un cambiamento – peggioramento – da un momento all’altro. Circoscrive una condizione di provvisorietà, incertezza e instabilità. Essa può essere fisica, psicologica, sociale, politica ed economica: aspetti che oggi – in un tempo post-pandemico che oscilla tra un presente spettrale e un futuro di cui si ha nostalgia – si intrecciano e si confondono, coagulandosi in nodi di instabilità che coinvolgono tanto la sfera personale quanto quella collettiva, se ancora sia possibile immaginare una “collettività” intesa come coincidenza di urgenze e desideri. 

Analizzare la precarietà ha spinto noi stessə a guardare il riflesso di una verità scomoda, come scontrarsi con un sospiro melanconico, pregno di tristezza e ansia, dal sapore amaro, ma crudele e irritante. E lo subiamo attivamente, compiendo con la nostra condizione una vorticosa danza nel luogo dell’asprezza e del rischio. In bilico, viviamo nell’irrefrenabilità del fare, impossibilitatə a vedere dove andiamo. 

 

Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando.

Il movimento è oscillante, procediamo a tentoni, seguendo una collettività di gesti incontrollabili che ricorda la coreografia disarmonica che avvenne a Strasburgo nel 1518, quando una donna di nome Troffea, brutalmente e senza preavviso, iniziò a danzare forsennatamente, trascinando la città nel caos.  Lə abitantə, incalcolabili, la seguirono, ognunə tentando la propria sequenza. Danza macabra e grottesca, risposta paradossale alla precarietà sentita fuori ed esplosa dall’interno del corpo stesso, prima afflitto, ora incontrollabile. Fu chiamata Piaga del Ballo, ed è da lì che idealmente scaturiscono le aritmie di questo volume.

 

xenia UNO fa della precarietà l’innesco di un’indagine per analizzare una realtà vorace e disincantata, con voci e punti di vista che hanno avuto l’urgenza di riflettere, essendovisi rivisti, su questa condizione; districandosi tra le pieghe di un’esistenza incerta, escogitando figurazioni alternative per attraversare lo spazio-tempo turbolento che si insinua nella crisi permanente.  

 

Così, ogni storia qui si fa coordinata di un atlante interdisciplinare: ci aiuta a percorrere, con le proprie rotte situate e intime, questa realtà tanto precaria quanto teneramente fragile.

 

È ciò che accade con i Refusi di Benedetta Manzi (fotografa, videoartista e poetessa), quattro componimenti poetici che ritroviamo cadenzati durante la lettura del volume, come momenti d’inciampo, sì, ma anche attimi di dolce riflesso in noi stessə. Le poesie di Manzi, infatti, vogliono dare forma al tentativo di dire, e comunicano un mondo, il suo, ma anche il nostro. Nate dalla necessità di trovare un processo che permettesse di esplorare il cambiamento – senza denaturarsi ma rimanendo aderente a esso – Manzi suggerisce delle fenditure da cui scorgere la soglia tra un andamento sempre precario e la fatica di intercettarne le direzioni, condensando in brevissime visioni le apparizioni di una strada.  

 

Al contrario, le visioni da cui comincia ALEPH. Appunti per una consapevolezza spazio-temporale, testimonianza dell’artista e scrittore Roberto Casti, sono deliranti e indecifrabili: immagini di entità senza misura, tanto sfuggenti quanto pressanti, che dallo spazio psichico febbrile dell’infanzia si rivelano come sintomi dell’anormalità fisiologica dello spazio-tempo presente. Casti traspone così lo squilibrio onirico dell’incubo nella carne viva di una realtà di crisi permanente, i cui nodi sono falsamente distesi dalla linearità di un presentismo fagocitante e iper-produttivo, che neutralizza qualsiasi pressione esterna nell’anestesia del benessere individuale. Come una ferita necessaria, negli Appunti proprio l’esterno – il nodo – sembra ritornare non più come mostro indecifrabile, ma come invito ad abitare la sua complessità, cablarsi per qualche istante nella sua fugace coralità e vivere il paradosso di una consapevolezza che diventa tale solo nel dialogo con ciò che sfugge. Come una domanda senza risposta che viaggia tra il corpo e il mondo, senza atterrare mai.

 

Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando. 

La musica si fa più ritmata, palpitano atavici gli spasmi del corpo. Ancora Troffea che riempie attraversandolo il vuoto dell’Europa del suo tempo. Quella danza macabra non fu niente di più che un fenomeno di isteria collettiva. Oggi la chiameremmo performance. O forse è il contrario?

 

Anche oggi siamo calatə in una temporalità “epilettica”, in cui terribili convulsioni arrivano senza preavviso; come quelle di cui soffriva Ian Curtis, il giovane cantante dei Joy Division. La sua vita, schiacciata dalla minaccia del prossimo attacco epilettico, imminente, ma imprevedibile, è raccontata da Marco Bellinzona nell’articolo «Dance to the radio!» Futuri epilettici, tempi precari e la danza di Ian Curtis. Il testo, epilettico esso stesso, ondeggiante tra analisi lucide e flussi sbrigliati, esplora la parabola del cantante come metafora dell’imprevedibilità. Nella vita di Ian Curtis, secondo la lettura di Bellinzona, ci sono due antidoti a questa condizione: quello di sottomissione al futuro, cioè il suicidio che Curtis stesso mette in atto; e una fase intermedia, la reazione, cioè l’auto-ironia, attuata dal cantante durante i concerti. Ian Curtis infatti mimava sul palco le sue stesse convulsioni –  per esorcizzare, in una danza sconclusionata, il presente dall’agonia, annullandola.

 

Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando.
In perenne viaggio attraverso luoghi evanescenti, si dissolve anche la nostra identità.

 

In questo vortice danzante siamo in continuo mutamento. La precarietà dei singoli corpi contamina la capacità di abitare il presente, come ne Il punctum di Kleant di Virginia Maciel da Rocha. L’intervista prende le mosse (vita) da una fotografia del 1999, apparentemente ordinaria e semplice: ritrae un bambino, Kleant Menkulazi – un amico dell’autrice, davanti a una fontana in Santa Maria Novella, a Firenze. Entrambə sono cresciutə a Pistoia, ma la loro esperienza di abitare la città si scontra con l’affermazione di un’identità errante. Kleant arriva dall’Albania e, nella sua conversazione con l’autrice, ripercorre i due decenni, costellati da un iter burocratico complesso, impiegati per essere riconosciuto quale cittadino italiano. La sua storia compone una metafora di tuttə quellə che, come lui, attraversano lo stesso percorso e che vivono nel dualismo di sentirsi parte di un contesto sociale e culturale ma non poter essere riconosciutə legalmente come parte di esso.

 

Non apparteniamo a nessun luogo, non ci riconosciamo in nessun luogo. Corpi invisibili, in balia di un’inesplicabile nostalgia. In questo anonimato spaziale e identitario, si dispiega uno scenario labirintico. Le coordinate spaziali si mescolano e le identità si perdono. 

 

Tra i meandri di un dedalo tortuoso, Arianna Tremolanti, in Labirinto: l’anti paradiso, innesta dinamiche di potere, sesso e società. Partendo da uno sguardo profondo su Mamma Roma, film di Pier Paolo Pasolini, l’autrice rilegge lo spazio alla luce di simbolismi e allegorie, fino a trasformarlo in un palcoscenico della vita interiore, specchio della complessità e della contraddittorietà dell’esperienza umana: il labirinto è qui simbolo della perdita di identità e della deviazione morale. Il pensiero di Tremolanti si radica nelle teorie queer contemporanee, la letteratura e la filosofia, che offrono uno sguardo critico sulla politicizzazione del sesso, evidenziando la dimensione antisociale del disassoggettamento. In questa prospettiva, i giardini labirintici diventano anche spazi simbolici di resistenza antisociale, dove il perdersi è un atto di ribellione contro l’ordine costituito. Una liberazione, quindi, che è spesso accompagnata da una condanna al nichilismo e alla sconfitta, evidenziando le ambiguità e le contraddizioni di un mondo in cui l’identità è fluida e mutevole.

 

Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando.
Siamo entità mutanti, corpi nomadi in divenire. Che valore hanno i nostri istanti? In questo eterno presente, lo spazio si fa tempo e turbolenza. Abbracciamo il caos e la casualità, le parole e le immagini si sovrappongono e si confondono.

Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando.

 

Ci troviamo davanti alla pagina di un quaderno: qualche scarabocchio, un po’ di stelle, una polaroid, due fotografie, scotch, alcune frasi che non si leggono per intero e un breve componimento poetico a legare, idealmente, questo atlante di ritagli, frammenti di attimi e pezzi di sé. Precarietà di Lorenzo Bonaccorsi è la scansione di un foglio parte dei suoi archivi; raccolte, le sue, che nascono nella provvisorietà: carta, foto, colori, pensieri che producono significato se visti tutti insieme, ma che, non appena si gira il quaderno in verticale, si staccano e volano via. Metafora del tema che questo numero di xenia vuole scandagliare, l’opera di Bonaccorsi incarna una condizione intima e personale, ma altrettanto palpabile e reale.

 

Di un’intimità messa in scena è costruita anche la giornata senza ore di Lady Bo, personaggio di The Lady Bo Show. Appunti di una giornata sospesa, ad opera dell’artista Anna Maconi e dell’attrice e performer Caterina Nebl. Lady Bo, in qualche modo, seguendo un’auto-ironica traiettoria di desideri e inciampi, cerca qualcosa: negli oggetti, attraverso le superfici, nei segni lasciati da altre persone sui muri di una città da scavalcare. Non vediamo mai i suoi occhi, anche se lei sembra guardarci per un attimo, con il binocolo, da lontano. Da dove? Percorriamo intanto la sua coreografia di gesti, incarnati da Nebl e catturati dallo sguardo di Maconi, fissati sulle pagine e lasciati risuonare nelle parole intorno – di Lady Bo, di una voce fuori campo che si perde, di altre invece che arrivano, magari le nostre quando leggiamo. Possiamo chiederle di girarsi, mentre cerca ancora, cerca e ci saluta, cerca e non si stanca.

 

Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando.
Plasmiamo i territori che attraversiamo. Non sono più gli stessi, non siamo più stessə. Che cosa ricordiamo? Che cosa ci rimane? Dissoltə in un dualismo che sembra inconciliabile, esseri organici in realtà inorganiche. 

 

Napua Nakapua – Nuvole pure dell’artista Davide Robaldo apre spiragli di reincantamento del mondo. Il progetto, radicato lungo un tratto delimitato del fiume Dora, a Torino, che l’artista esplora quotidianamente con pratiche di wandering e deep listening (che permettono di sondare la forma dello spazio e la vita delle persone che lo abitano), affronta l’indifferenza verso la dimensione emotiva di un luogo. L’artista traduce le condizioni del fiume e dei suoi abitanti attraverso una memoria visiva e uditiva: ne scaturisce una narrazione magica, una psicogeografia che si presenta come crittografia della realtà composta di storie errate e immaginari possibili. Il progetto si apre al mondo, trasformando l’indifferenza in consapevolezza e l’esplorazione in un viaggio continuo tra corpo e spazio.

 

Anche l’installazione Il cerchio delle Streghe di Selene Ghiglieri richiama una geografia emotiva nella ricerca di legami invisibili ed empatici. L’artista indaga ciò che resta nell’assenza, osservando i rapidi mutamenti della forma e del concetto di “città”. Ghiglieri vive e lavora a Madrid e il suo lavoro si radica a Lavapiés, un quartiere multiculturale nel mirino della gentrificazione. L’artista, con un’operazione di foraging urbano, seleziona scarti edili, ruderi di un quartiere che si sgretola su se stesso, per risignificarli in oggetti organici e vivi, ora frammenti delle piante grasse del giardino di Lanzarote di César Manrique; richiamano il bizzarro modo di crescere di alcune specie fungine, i cui corpi fruttiferi – similmente al frenetico sviluppo urbano – crescono fino a formare il disegno di un cerchio. Reimmettendoci nel solco del rito e della magia, le città, le streghe e i funghi danzano in cerchio, grazie a oggetti obsoleti che riacquistano la loro carica empatica per la memoria collettiva, fronteggiando l’oblio.

 

Eppure, se l’oblio è la controparte necessaria della memoria, sono proprio le vicende che scegliamo di ricordare a definire il nostro presente: in Latimeria, il fotografo Pierluca Esposito si interroga sulle dinamiche di potere che definiscono le pratiche archivistiche e di conservazione del patrimonio culturale e appunta i suoi pensieri nelle pagine del suo taccuino, che invadono lo spazio di xenia. Il progetto racconta la storia del celacanto o latimeria, un pesce preistorico che si credeva estinto circa 60 milioni di anni fa, a partire da una polaroid dei pescatori che ritrovarono l’esemplare di quello che viene chiamato «fossile-vivente» nelle isole africane Comore, alla fine degli anni Settanta. Si tratta di una fotografia che Esposito ritrova casualmente insieme a tre esemplari del latimeria conservati nei sotterranei del Museo di Scienze Naturali di Torino – con il quale collabora nel tentativo di archiviare la mole di materiale presente nell’istituzione. Non oggetti taciuti, ma semplicemente dimenticati, frutto dell’impossibilità di raccontare e valorizzare ogni storia.

 

Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando.
La finzione e la realtà si mescolano. 

Questi esseri narranti spiano la realtà. 

 

Fotografie rubate da notizie di cronaca, scattate da ignoti che hanno assistito all’evento, compongono il progetto Gasping, dying, but somehow still alive di Gianluca Tramonti. Queste immagini, storie, dal forte impatto visivo – volontariamente rosso fluo e nero, quasi catarinfrangenti per essere viste da tuttə, anche da lontano – oscillano tra qualcosa che è appena accaduto e quello che invece deve ancora accadere. Il lavoro di Tramonti simboleggia una sorta di voyeurismo sull’attualità e sulle azioni umane, e le sue immagini rimangono protagoniste e plasmatrici del contesto in cui operano e del presente che viviamo. Un rituale collettivo che vede la precarietà incarnata nella relazione tra l’essere umano, l’ambiente, la folla e il suo agire nella quotidianità.

 

Tra le controversie della quotidianità si muove Tomà, un accalappiacani che insegue Dea,  cagnolina smarrita i cui volantini che ne denunciano la scomparsa invadono Milano. In una giornata frenetica e uggiosa Tomà inizia a percorrere la città in un viaggio che non ha davvero un inizio o una fine. ANIMALE, il racconto visivo del copywriter e scrittore Michele Damna, è composto da trentatré tavole tenute insieme da un tempo non lineare ma disteso, dove passato, presente e futuro si intersecano e il procedere continuativo del racconto è solo una conseguenza della rilegatura. In questo editoriale, Damna restituisce tutta la complessità di ANIMALE che è contemporaneamente storia e materia, presentando prima l’idea unitaria di uno pseudo libro e, poi, una selezione di quattro tavole indipendenti dove i caratteri tipografici diventano segno. Ogni tavola è parte del tutto e, insieme, un luogo a sé, cosicché il tempo di lettura risulta potenzialmente infinito e la ricerca di collegamenti tra queste tavole slegate diventa un’azione di interpretazione e composizione soggettiva dove perdersi.

 

Ancora una volta,
Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando. 

 

Con Sweating Cave Pages, di Traian Cherecheș, le pagine di xenia UNO annegano in un processo di sudorazione, quasi fossero ghiandole di un corpo cavernoso da cui fuoriescono secrezioni di segni, parole e immagini, incrostate nel loro stesso processo di gestazione. Sono pagine che non implicano un tempo di lettura, emergendo invece come spazio da attraversare: territorio abissale e opaco, in cui tanto il linguaggio quanto la figurazione si aggrottano appena prima di un qualsiasi significato codificato, confondendosi in un archetipo confuso e magmatico che lascia immaginare una sua ramificazione oltre i margini entro cui è racchiuso. Nessuna mappa, nessuna sintassi possibile: ogni gesto sembra affondare nella melma dei segni, ormai corpi precari di una materia pulsante e indefinibile, che Cherecheș lascia rimbombare nel suo ritmo arcaico, geologico. Mani umane possono tastare lo spazio cavernoso, avvicinarlo agli occhi, seguirne i tratti e gli intrecci, scoprirsi anche loro pelle che suda, come membrane umide nello spazio tra catastrofe e rinascita, dissoluzione e possibilità.

 

Stiamo solo navigando. Stiamo solo annegando.
La nostra bussola è impazzita, le note sono stonate. Riemergere è solo attuare una resistenza estenuante, come a Strasburgo, quando dopo i primi movimenti di Troffea, alla precarietà della vita si rispose con la precarietà impulsiva di un corpo che danza, fuori-spazio e fuori-tempo. Impossibilitato a fermarsi. Eppure, perfino queə ballerinə strematə chiedevano aiuto. 

 

Tale impossibilità è protagonista del saggio di Sofia Rasile, “Non fare” come atto di resistenza alla società della prestazione, la quale, facendo riferimento alle riflessioni del filosofo Byung-Chul Han, descrive la “società della prestazione” – la nostra. L’autrice mette in luce le problematicità di una contemporaneità senza soluzioni, rispetto a cui è possibile mettere in atto precise provocazioni all’odierna condizione di instabilità. Così leggeremo le esperienze di artisti come Tehching Hsieh, che si è sottratto al sistema capitalistico di perenne produzione, ma anche di Ira Lombardia, che invoca uno sciopero di immagini, e infine di Alicja Rogalska e Łukasz Surowiec, che sono addirittura riusciti a capitalizzare un qualcosa di profondamente intimo, come le emozioni.

 

L’analisi critica della precarietà contemporanea cede il passo a una visione profondamente malinconica del tema, legata alla figura del fantasma. In un presente totalizzante guidato da un sistema capitalistico che non ammette alcuna possibile dipartita, gli spettri appaiono insieme come conseguenza scarto di ciò che non è stato estirpato del tutto e insieme entità altre, forme di vita abitanti del confine indefinibile tra presenza e assenza. Silvia Ontario e Olivier Russo, artistə e ricercatorə, raccontano di quelli che definiscono gli spettri dell’antropocene per eccellenza: gli animali, la cui condizione sempre marginale è ingabbiata dentro scenari univoci assoggettata alle dinamiche umane, perduta per via dell’estinzione o del tutto selvaggia. Dall’animale all’umano e nelle pieghe del rapporto ormai inaridito tra i due termini, il ritmo del testo sembra scandire i tempi di un rito catartico: Cronache di fantasmi al margine traccia una storia senza lieto fine, a tratti troppo amara, dove la nostalgia si esaurisce di fronte alla condizione incontrovertibile del presente.

 

Coscienti, ma senza fiato. La catastrofe arriverà. Sul finire di questo viaggio totalizzante ci riscopriamo in un limbo spettrale: vaghiamo lugubri, stiamo al margine. Non siamo solə. 

 

La catastrofe arriverà. Ma, in .sette fiamme per rinascere., epilogo del poema lirico sperimentale e speculativo Catarsi Bruciando male. Transpecietà o bruciamo all’aldilà dell’artista Stefano Ferrari, le calamità che hanno colpito il pianeta dalla sua nascita, le specie che sono scomparse o sopravvissute, i fossili, che qualche volta ci parlano, sono  testimoni di come ogni morte sia un modo per fare spazio a qualcos’altro. Nel poema, adottando la scrittura come medium per mondeggiare, Ferrari cerca un’evasione dalla “noia-nausea” quale condizione sensazionale ed esistenziale. Osserva il paesaggio circostante e nel cielo che muta inizia a intravedere l’oniricità del reale, fino a chiedersi: se alteriamo la nostra chimica corporea, che tipo di realtà percepiamo? Nella distorsione psichedelica si fanno largo il panico – scaturito dalla noia-nausea che ci attanaglia – la visione di un incendio che arde, la danza col fuoco per aderire al mondo e la fascinazione meravigliata per il microscopico, altre forme di vita non umane, fino alla presa di coscienza di una catastrofe imminente quanto necessaria.

 

Se l’incendio è ormai una necessità planetaria, chi e come sopravviverà alla prossima catastrofe? 










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