Precarietà: un’introduzione. Movimenti propedeutici per danzare dopo la caduta

a cura di Genealogie del Futuro

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Refusi

di Benedetta Manzi

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ALEPH

appunti per una consapevolezza spazio-temporale 

di Roberto Casti

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«Dance, to the radio!»
Futuri epilettici, tempi precari, la danza di Ian Curtis

di Marco Bellinzona

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Il punctum di Kleant

di Virginia Maciel da Rocha

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Labirinto: l’anti paradiso

di Arianna Tremolanti

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Precarietà

di Lorenzo Bonaccorsi

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The Lady Bo Show
Appunti di una giornata sospesa

di Anna Maconi e Caterina Nebl

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Napua NakapuaNuvole Pure

di Davide Robaldo

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Il cerchio delle streghe

di Selene Ghiglieri

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Latimeria

di Pierluca Esposito

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Gasping, dying, but somehow still alive

di Gianluca Tramonti

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ANIMALE

di Michele Damna

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 Sweating Cave Pages

di Traian Cherecheș

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“Non fare” come atto di resistenza alla società della prestazione

di Sofia Rasile

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Cronache di fantasmi al margine

di Olivier Russo e Silvia Ontario

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.sette fiamme per rinascere.

di Stefano Ferrari

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Bibliografia, sitografia, filmografia

per approfondire

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Cronache di fantasmi al margine

di Olivier Russo e Silvia Ontario

Olivier Russo, FREAKy FOLK (reprise), 2023

Un lenzuolo bianco con due fori al posto degli occhi, una radura di piante secche, gelate da un inverno ormai non più solo stagionale. 

Un cencio fermo nel suo tempo stagnante… eppure curioso osservatore… un fantasma.

Il fantasma rappresenta la zona grigia che si colloca tra il concetto di assenza e quello di presenza. Una visione evanescente, impermanente. 

Il fantasma descrive un qualcosa che, nonostante appaia o compaia, rimane impalpabile e improvabile: assente a metà. Una presenza che resta incompiuta, sospesa e mortifera.

 

Mai soggetti del racconto ma sempre figure marginali, ci sono alcuni fantasmi che popolano il nostro quotidiano: gli animali. 

Gli animali sono (diventati) fantasmi. I nostri fantasmi. Lo sono diventati a causa nostra e, come fanno i fantasmi, a volte ritornano. Spettri che dialogano con la nostra presenza aspettando di presentarci il conto in sospeso.

 

John Berger, critico d’arte e scrittore britannico, in Sul guardare afferma che «ciò che distingueva l’uomo dagli animali era la capacità umana di pensare per simboli […] Eppure i primi simboli furono degli animali. Ciò che distingueva l’uomo dagli animali nasceva dalla relazione che vi era tra loro»¹.

 

La frattura tra il soggetto umano e quello animale appare oggi più nitida che mai: da una parte abbiamo l’essere umano, sempre più contraddistinto da un’estraneità nei confronti di un ambiente naturale (o naturalizzato), dall’altra rimangono gli animali, ormai ridotti a criptidi, con sempre meno diritti e possibilità di poter vivere il loro territorio – quest’ultimo oramai inteso come gli spazi in cui concediamo loro di abitare in modo precario, se non in contesti di sfruttamento.

Questa nuova forma di spettralità pervade ambo i regni. L’inquietudine del vivere la Natura colpisce l’umano-animale e l’animale-animale ormai allo stesso modo, ognuno sempre più in fuga dall’altro, ognuno sempre più diffidente nei riguardi dell’altro.

Negli ultimi due secoli, gli animali sono a poco a poco scomparsi. Oggi viviamo senza di loro. E in questa nuova solitudine, l’antropomorfismo ci mette doppiamente a disagio². 

Come ci sentiamo di fronte al tema della perdita di biodiversità, di specie compagne?³

Il concetto di perdita pare essere insito nella tanto problematica e incircoscrivibile Antropocene. Perdita intesa come una frattura tra un qualcosa che c’era prima di noi e che, prevedibilmente (nel senso scientifico del termine), non ci sarà più. 

Orchidea Ophrys Apifera © André Lantz

La perdita non è mai singola. In un equilibrio ecosistemico plurale la perdita di una specie si riversa con un effetto a cascata sulle altre, diventando così sempre multispecie. 

I fantasmi dell’Antropocene non sono solo quelle forme di vita sia animali che vegetali estinte negli ultimi decenni – dalla scala dell’invisibile fino ai più grandi animali che abitavano il nostro pianeta – ma anche quelle che sopravvivono oggi in una precarietà totalizzante: dei sopravvissuti o forse per meglio dire dei non morti (non vivi del tutto).

La filosofa Donna Haraway in Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto cita, a tal proposito, un caso specifico: quello di un’orchidea – l’Ophrys Apifera il cui fiore somiglia a un’ape femmina oramai estinta – o meglio – la forma del fiore è «un’idea di come l’ape femmina appariva all’ape maschio, interpretata da una pianta […] Una volta circondato da api ronzanti e vive, il fiore diventa una cosa che parla per i morti»⁴. L’orchidea, performance mnemonica vivente, ha perso la sua ape e presumibilmente finirà con l’estinguersi a sua volta.

 

Gli spettri dell’antropocene diventano sempre più numerosi. Non si può separare il destino dell’essere umano da quello del suo ecosistema e da tutto quello che, oltre a esso, (ci) vive. Non sappiamo esattamente quanti organismi viventi – unicellulari compresi – ci siano sulla Terra, si pensa che il numero possa variare da 4 a 100 milioni. E solo una infinitesimale parte di questi (da 1,5 a 1,8 milioni) è attualmente conosciuta; ciò significa che non possiamo sapere con esattezza nemmeno quanti di essi stiano scomparendo.

Ci troviamo di fronte alla consapevolezza della perdita di gran parte della biodiversità presente sul nostro pianeta: la comunità scientifica stima la scomparsa di circa cinquanta specie diverse al giorno: cos’è questo se non un mondo pieno di fantasmi?

Orchidea Ophrys Apifera © André Lantz

Suggestive sono, in questo senso, le immagini catturate da una fototrappola posizionata al confine tra un piccolo bosco e un’area a utilizzo umano, in Lombardia, che rivela attraversamenti animali furtivi e quasi esclusivamente notturni. 

Gli animali che appaiono negli scatti della camera, catturati solo nella loro dimensione di immagine come prova della loro esistenza/presenza, sono per lo più tassi, volpi, gatti, scoiattoli, merli, gazze ladre. Le loro silhouette impressionate  attraverso l’utilizzo degli infrarossi nella memoria della fototrappola sono bianche, quasi trasparenti e maggiore è la distanza del corpo dall’obiettivo più sembrano dissolversi. Tra queste c’è quella di una volpe vista da dietro, che avanza verso il buio nero della notte e sembra, più che uno scatto, un’apparizione. La sagoma dell’animale è evanescente, al punto tale da contemplare la possibilità che la prossima volta che la si osserverà non sarà più lì.

Fantasmi candidi in uno sfondo oscuro. Abitanti di un territorio di confine tra il selvatico e l’umano. Presenze marginali in un ambiente sempre più urbano, apparizioni  crepuscolari ormai relegate al buio e alla notte. Si potrebbe dibattere che l’uno sia il requisito dell’altra, che il buio determini la notte ma – per esempio – durante i mesi invernali le ore di luce si esauriscono nel pomeriggio, tuttavia le giornate non si concludono alle 17:00, non si va a dormire quando il sole tramonta, il lavoro non si ferma e prosegue incurante. L’ossessione e la produzione non si bloccano con la necessità del riposo o i cambiamenti naturali di luce. 

Tale società della prestazione e dell’iperproduzione non si arresta di fronte alla necessità del riposo e non tiene conto dei cambiamenti stagionali di luce, ma le abitudini dei piccoli abitanti delle zone boschive sono differenti: il buio decreta l’inizio di movimenti meno trattenuti e schivi, ciò che permette loro di riappropriarsi quasi del tutto della loro corporeità. Fantasmi, a questo punto, più di giorno che di notte. 

[…] il lavoro porta con sé nuovi generi di sofferenza: […] la giornata lavorativa non ha più termine. Una popolazione sempre disponibile al lavoro vive in uno stato di depressione insonne, di perenne incapacità di staccare la spina.

Addentrarsi nel bosco di notte è un’esperienza carica di suggestioni che risveglia l’ancestrale paura del buio. C’è persino una specifica fobia che si riferisce alla paura dei boschi al buio, che prende il nome di nictoilofobia. Nel bosco è più facile che altrove che il buio diventi oscurità. È una risposta fugace al vespro finale del voyeurismo umano. La riappropriazione di uno spazio che crea ancora angoscia: la paura atavica del buio, fratello prossimo al nero profondo della morte. Gli spettri, nascosti nella selva, scrutano silenti le ormai creature mancate sperse e pietose, senza più un habitat e in cerca di un luogo da abitare.

In quest’ottica la volontà sempre più manifestata di un ritorno alla vita agreste porta con sé una nuova forma di infestazione: l’occupazione di un ulteriore spazio inalterato. 

Un cul-de-sac che i fantasmi, placidi e in attesa, osservano da sempre più vicino. 

Silvia Ontario, della serie fotografica La Notte, 2022 - in corso

Non sembra esserci altra soluzione se non la continua modifica dell’ecosistema stesso: la notte senza una fonte luminosa antropica ci sembra ancora più buia, ogni rumore e ogni movimento risulta amplificato, a dimostrazione di come la paura abbia permesso la nostra evoluzione, la stessa paura che forse oggi è uno degli ultimi istinti naturali rimastoci.

Così come non sembra possibile anche solo immaginare un modello socio-politico-economico alternativo al capitalismo, che ha portato a soffocare ogni rivendicazione libertaria, sostituendola con una nuova forma di disillusione sociale. Quest’ultima si struttura come una sorta di auto-convincimento di matrice quasi religiosa, una credenza radicata che distrugge ogni forma di visione altra, determinando l’impossibilità di poter vedere aldilà, di poter immaginare un esito differente dove sia fattibile vivere al di fuori di questa precarietà sociale, concedendoci solo soluzioni fittizie per arginare e sopportare il peccato capitalista.

Come anticipava il filosofo e sociologo Mark Fisher, gli eccessi della crisi ecosistemica trovano conforto in una forma di depressione generazionale che non può in nessun modo trovare una via altra al capitalismo stesso: un’ipotetica fuga risulta solo una mitigazione dei suoi eccessi peggiori. Qualsiasi tentativo di localizzare un’origine identitaria diventa futile. L’Io rimane statico – ristagnato – bloccato in una stasi tra la non-vita e la non-morte: «inquietante in quanto tale», esausto dall’inedia e da un avvilimento collettivo.

 

Il fantasma (quindi) diventa simbolo rivoluzionario: il successo viene perpetrato dal banchetto della carne. Laddove un lauto pasto cannibalistico – perpetrato da un sistema che si nutre dell’essenza stessa del vivente – si trova dinanzi a una figura svuotata da ogni materia corporea, si crea uno stallo a questo sistema a mo’ di cane mangia cane. 

Cosa (ri)vogliono gli animali-fantasma? Li abbiamo forse derubati di un qualcosa che spettava loro di diritto?

Non si tratta solo di un sentimento nostalgico nei confronti di ciò che è stato o che sarebbe potuto essere ma del timore di ritrovarsi a guardare un passato perduto proiettato però verso un futuro già vecchio e stanco, che ci salta a piè pari. Il terrore di perdere tutto e fare un enorme balzo all’indietro. 

Forse non c’è mai stato futuro per nessuna specie vivente, ma non è come ce l’aspettavamo.

Olivier Russo, Cane (Lyskha) e covone, 2021

¹ John Berger, Sul guardare (2003), in Perché guardiamo gli animali?, il Saggiatore, Milano, 2016, p. 29.

² Ivi p. 32.

³ Concetto approfondito da Donna Haraway a partire dall’analisi delle nostre profonde connessioni con i cani e altre “creature” non umane in The Companion Species Manifesto, Prickly Paradigm Press, Chicago, 2003.

Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019, p. 103.

Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Quanta biodiversità abbiamo nel mondo? Quanta ne perdiamo?,  isprambiente.gov.it.

Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. k-punk/1, Minimum Fax, Roma, 2020, p. 145.

In riferimento all’Hauntology, una parola macedonia francese di hanté e ontologie, ovvero “fantasma”/”ossessione” e “ontologia”. È un concetto coniato dal filosofo Jacques Derrida in Spettri di Marx. Si riferisce a una disgiunzione temporale nostalgica nei riguardi di un ipotetico futuro perduto; un fantasma: «né presente, né assente, né morto». Per approfondire: Jacques Derrida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1993.

Silvia Ontario (Bergamo, 1996) svolge la sua ricerca tra Bergamo e Milano. Si è laureata al biennio specialistico di Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, sempre a Milano. Precedentemente ha frequentato il triennio di Arti Visive all’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo. Nel 2022 dà vita, insieme a Olivier Russo, a  – Fania * un progetto artistico di ricerca multidisciplinare guidato dall’intento di relazionare le riflessioni ecosistemiche/ambientali allo spettro hauntologico.

Olivier Russo (Bergamo, 1994) è un sound ma anche visual artist e ricercatore hauntologico, che pratica tra Bergamo e Milano. Ha conseguito la laurea di biennio specialistico di Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, a Milano. Precedentemente ha frequentato il triennio di Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo. Dal 2022 collabora con Silvia Ontario al progetto – Fania *.

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