Gioco: un’introduzione. Piccolo manuale di bricconerie e altre possibili rivoluzioni
a cura di Genealogie del Futuro
Inferno e paradiso
un progetto ludico a cura di Genealogie del Futuro e collettivo scafandra
Piero Gilardi: pratiche di gioco per immaginare nuove forme di comunanza
di Costanza Mazzucchelli
di Costanza Mazzucchelli
Se si dovesse associare la figura di Piero Gilardi (Torino, 1942-2023) a un materiale, questo sarebbe indubbiamente il poliuretano espanso, modellato per realizzare i noti Tappeti-Natura, opere in cui si ritrova già in nuce la sua agilità nel muoversi tra il serio e il faceto, tra l’artificiale e il naturale, che invita gli spettatori a interagire ludicamente con questi “giocattoli per adulti”¹.
Il poliuretano costituisce il materiale prediletto da Gilardi per il gioco e il travestimento del reale, ragion per cui, a partire dagli anni Settanta, inizia a essere impiegato per fabbricare costumi e maschere ironico-satiriche raffiguranti politici, industriali e altri (più o meno grotteschi) simboli del nostro tempo.
Tali costumi, da indossare in occasione di manifestazioni politiche e di strada, rappresentano per l’artista la naturale continuazione di un Sessantotto speso a militare tra i gruppi operai, i movimenti studenteschi e le comunità cittadine, nel vivo delle lotte sociali, politiche e ambientaliste.
A partire dagli anni Settanta, l’arte di Gilardi si è posta in ascolto delle necessità e delle urgenze del momento: dai cortei operai, passando per il G8 di Genova del 2001 e l’instancabile impegno riversato nell’animazione del primo maggio torinese, fino alla più recente collaborazione con movimenti quali Extinction Rebellion e i No TAV. La sua pratica è scesa in strada, lasciandosi dietro l’ovattato mondo delle gallerie e dando forma a parchi giochi temporanei che sono spazi di lotta e rivendicazione, di contro-spettacolarizzazione di fronte ai simboli del potere.
A partire dagli anni Settanta, l’arte di Gilardi si è posta in ascolto delle necessità e delle urgenze del momento: dai cortei operai, passando per il G8 di Genova del 2001 e l’instancabile impegno riversato nell’animazione del primo maggio torinese, fino alla più recente collaborazione con movimenti quali Extinction Rebellion e i No TAV. La sua pratica è scesa in strada, lasciandosi dietro l’ovattato mondo delle gallerie e dando forma a parchi giochi temporanei che sono spazi di lotta e rivendicazione, di contro-spettacolarizzazione di fronte ai simboli del potere.
Le maschere sono state pensate dall’artista per essere indossate all’interno di una pratica di gioco come forma di trasgressione ed emancipazione dalle regole della morale e della produzione, come consapevole rottura del quotidiano e recupero di un estro inibito e una creatività individuale e collettiva, anche attraverso momenti laboratoriali in cui imparare a lavorare il poliuretano per realizzare il proprio costume. Le esperienze proposte dall’artista hanno trasformato il gioco in un rito, secondo la modalità «ciclo gioco-rito-gioco»² teorizzata dallo stesso Gilardi: le pulsioni liberatorie delle persone coinvolte vengono convogliate in un gioco condiviso che, successivamente, si trasforma in rito sociale e collettivo, «azione corale politicamente affermativa»³, per poi sciogliersi e tornare a dimensione ludica, stemperando la tensione ideologica della ritualità politica, trovando una via d’uscita alternativa e inducendo a interrogare senza sosta le strutture e le norme che ci incasellano. Il gioco, dunque, oltre alla funzione primaria di disinteressato intrattenimento, svolge quella di apprendimento per l’individuo partecipante a un evento di comunicazione collettiva socio-politica, che ha come finalità la solidarietà umana e un’economia del dispendio, ben differente da un’economia dello scambio che «nulla può in quegli ambiti della vita umana, come il gioco, l’eros, il sacrificio, l’esperienza religiosa di tipo estatico, nei quali ciò che conta non è il calcolo dei costi e dei ricavi, ma la voluta e consapevole rottura dell’ordine quotidiano abituale»⁴.
Tali manifestazioni, nel rompere l’ordine vigente, danno vita a una festa popolare, un carnevale contemporaneo, con riferimento allo “spirito carnascialesco” di cui ha scritto Michail Bachtin⁵: l’umorismo e i comportamenti buffoneschi hanno la meglio sul rigore e sulla disciplina, l’ordine e le regole vengono temporaneamente rovesciate e le gerarchie, le leggi e i confini vengono sospesi. Durante il carnevale è la vita stessa che recita, «presentata sotto la veste speciale del gioco»⁶ e di una forma libera e piena di condivisione. Per l’artista torinese, il mondo non va contemplato acriticamente, ma stravolto, smontato e rimontato attraverso il riso, l’immaginazione e l’imprecazione gioiosa, con la serietà e il divertimento che costituiscono due componenti inscindibili e fondamentali tanto nello spirito del carnevale quanto nella produzione di costumi di Gilardi.
Attraverso il fare e un’azione ludica viene stimolato un processo immaginativo, mentre è proposto un approccio concreto al problema delle nuove forme di comunanza, di gestione del potere, del vivere in comunità e dell’autogoverno da mettere in atto nel riconfigurarsi dello spazio urbano, che diventa spazio ludico, terreno di un gioco che esce dai confini – temporali e spaziali – a esso imposti. Tale ludicità pervade lo spazio pubblico e la strada viene temporaneamente occupata e trasformata in zona libera, autonoma, in luogo centrale di azione politica, in cui ciascuno ha il diritto di affermare la propria esistenza, mentre il dibattito collettivo su problemi urgenti e condivisi si impone al centro della scena. La piazza e la strada diventano beni comuni grazie all’azione sociale e si costituiscono come spazi critici in cui “desituare” la propria rinnovata identità e da cui avviare una trasformazione del sociale.
La pratica artistica di Gilardi di organizzazione delle manifestazioni popolari spinge le persone a riunirsi, a fare comunità per scambiarsi solidarietà e aiuto reciproco; le strade ritornano così a essere momentaneamente luoghi di socialità e beni collettivi, in reazione a una grave privatizzazione dello spazio urbano, con il capitalismo che si serve dell’urbanizzazione per incrementare i profitti e vigilare sulla vita delle persone. In tale riconoscimento della necessità di una ricostruzione dei beni comuni ha giocato un ruolo significativo il sodalizio con il movimento No TAV⁷, visto dall’artista come un nuovo modo di essere comunità, una comunità politica e sociale alternativa e autonoma rispetto al neoliberismo.
Il diritto allo spazio pubblico viene reclamato, proprio come sostenuto fin nel nome, dal movimento sociale Reclaim the Streets nato nel 1995 nel Regno Unito con l’obiettivo di rivendicare il controllo collettivo degli spazi pubblici, trasformati temporaneamente in aree di gioco, di festa e di protesta contro il consumismo e le ingerenze del capitalismo nei centri urbani. Si tratta, dunque, di una riappropriazione e una ricostruzione di un tessuto cittadino e relazionale, di una rivalorizzazione della piazza, zona che secondo il sociologo Zygmunt Bauman rientra tra gli «spazi pubblici ma non civili […] che stimolano l’azione ma non l’interazione»⁸ all’interno di una modernità in cui le strutture sociali sono sottoposte a una progressiva disgregazione. Il teatro di strada, che suscita relazioni nuove fra la collettività e lo spazio, contribuisce a rigenerare la sfera pubblica e a creare spazi interattivi e cangianti, a cui si può guardare richiamando le teorie dello studioso marxista Henri Lefebvre, che ha indagato l’interazione tra lo spazio e le relazioni e la qualità dello spazio sociale.
Lefebvre ha auspicato il passaggio dalla città-prodotto, sostanzialmente definita dalle dinamiche del mercato delle merci, alla città-opera, intesa come elaborazione collettiva, partecipata in vista di un nuovo sentire, il cui momento apicale è costituito dalla festa come collante comunitario e come momento svincolato da logiche economiche; a una città come valore di scambio consumistico dovrebbe subentrare una città come valore d’uso.
Così, nella lotta per il diritto alla città, il momento del gioco irrompe nella quotidianità alienata come atto di riappropriazione della propria vita e momento d’avvio per una nuova immaginazione di un modello di città «completamente diverso dall’orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente»⁹.
¹ Jérôme Peignot, Gilardi, cat. (Paris, Galerie Ileana Sonnabend, gennaio 1967), Jérôme Peignot, Michael Sonnabend (a cura di), Galerie Ileana Sonnabend, Paris, 1967, s.p. [T.d.A.].
² Piero Gilardi, Politiche della vegetazione, Conversazione con Marco Scotini, in AlfaEcologia di «Alfabeta2», 35, 2014, ora in Piero Gilardi, La mia biopolitica, Arte e lotte del vivente. Scritti 1963-2014, Tommaso Trini (a cura di), Edizione Prearo, Milano, 2016, pp. 195-201.
³ Ivi, p. 197
⁴ Giovanni Leghissa, Introduzione. Le scienze diagonali di Roger Caillois, in Roger Caillois, L’occhio di Medusa, Raffaello Cortina, Milano, 1998, p. XIV.
⁵ Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 1979
⁶ Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 1979, p. 9.
⁷ Piero Gilardi, Note per NO-TAV, in “Arte e Critica”, 45, 2006, ora in Angela Vettese (a cura di), Piero Gilardi. Interdipendenze, cat. (Modena, Galleria Civica, Palazzina dei Giardini, 14 maggio-16 luglio 2006), Silvana Editoriale, Milano, 2006, pp. 97-98, qui p. 97.
⁸ Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma, 2002, p. 107.
⁹ David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano, 2013, p. 16.
Costanza Mazzucchelli (Busto Arsizio, 2000), laureata in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici con una tesi incentrata sull’artista Piero Gilardi e sul rapporto con le comunità sociali, lavora come editor di libri d’arte e come redattrice di testi di taglio storico-critico per riviste del settore storico-artistico, prediligendo un’indagine dei rapporti tra arte, società e politica.
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