Gioco: un’introduzione. Piccolo manuale di bricconerie e altre possibili rivoluzioni
a cura di Genealogie del Futuro
Inferno e paradiso
un progetto ludico a cura di Genealogie del Futuro e collettivo scafandra
Piero Gilardi: pratiche di gioco per immaginare nuove forme di comunanza
di Costanza Mazzucchelli
di Carlo Di Benedetto
«YOU ARE IN A MAZE OF TWISTY LITTLE PASSAGES, ALL ALIKE»¹: questo frammento tratto da Colossal Cave Adventure evidenzia un legame tra l’ipertestualità e l’esplorazione di un dedalo sotterraneo, dando luogo a un campo da gioco ideale per smarrirsi. Le grotte rivelano le attitudini di chi vi entra in base a ciò che si è in grado, o si decide, di vedere o meno nel buio. Discutere però di videogioco e sottosuolo in una prospettiva prettamente metalinguistica rischia di intrappolarci in una virtuosistica esplorazione, distante dalle condizioni materiali e culturali da cui le esperienze che fruiamo traggono origine e, nella maggior parte dei casi, profitto.
Il videogioco MINE² dell’artista Akwasi Bediako Afrane consente l’esplorazione in prima persona di una miniera costellata di oggetti che mostrano il ciclo di vita delle materie prime da cui queste tecnologie digitali hanno origine, tentando di riconnettere l’attività di gioco ai processi di estrattivismo che la rendono possibile. L’avventura si chiude con un vicolo cieco, palesando volutamente la contraddizione dell’opera e la finitezza di processi raccontati come infinitamente riproducibili.
«[…] Le grotte non sono solo luoghi naturali, sono anche luoghi artificiali, creati dall’essere umano nella sua ricerca spasmodica di risorse. In questo caso prendono il termine di miniere e, oltre al significato filosofico (o persino esistenziale) assumono anche un’accezione politica ineluttabile – spesso trascurata dalle opere di intrattenimento che scelgono di ambientare in questi luoghi le proprie avventure»³: l’intervista condotta da Giulia Trincardi ad Afrane racchiude il punto da cui partire per riflettere sui risvolti concreti del creare e giocare videogiochi ambientati sotto la superficie della terra, nell’epoca in cui le maschere del colonialismo e del capitalismo cedono addirittura di fronte a opere di intrattenimento che iniziano a intravedere la prospettiva della propria insostenibilità.
Il rapporto tra il buio del sottosuolo e lo spazio videoludico mette potenzialmente in discussione l’aspetto “video” che di norma reitera l’egemonia del visuale – inserito in un sistema già di per sé fortemente abilista – rispetto ad altre forme di esperienza interattiva digitale, come ad esempio gli “audiogame”. Alla grotta viene restituito il potenziale, anche solo immaginifico, di accoglierci in uno spazio che è in grado di sfaccettare e amplificare la nostra esperienza sensoriale.
Il buio della caverna toglie quindi potere allo sguardo in ogni sua possibile applicazione, ridefinendo i confini del suo impatto.
È proprio attraverso la visione che spesso i videogiochi, come nel mondo fisico, garantiscono la riproduzione di molte forme di dominio in forma simulata e ludicizzata: sguardi su luoghi, storie e segreti costruiti per essere profanati.
L’industria videoludica è in grado di sussistere grazie all’accessibilità e alla gratificazione dedicata a un pubblico generalmente bianco, maschile cis-etero, abile e tipicamente benestante, così come grazie all’incessante estrazione di risorse in territori tutt’ora (neo)colonizzati, all’appropriazione culturale e allo sviluppo delle tecnologie militari.
Il piacere ludico e la narrativa mainstream nei videogiochi restano nella morsa della mentalità suprematista occidentale attraverso cui vengono costruiti mondi di finzione controllabili e in cui l’interazione con questi serve a sovradeterminarne le sorti, come l’autrice britannica Meghna Jayant esplicita in modo molto chiaro nel suo talk White protagonism and imperial pleasure in Game Design⁴.
Queste modalità di gioco si sposano molto bene con gli spazi aperti open-world e sandbox, programmati per infinite riconfigurazioni⁵ e in grado di evocare orizzonti di conquista e di predestinazione, in accordo al rapporto tra sviluppo tecnologico e la possibilità per chi gioca di interagire liberamente con un mondo virtuale, quando non salvarlo o distruggerlo direttamente sul piano narrativo.
La caverna invece si pone come spazio in cui diventa necessario adattarsi. Al suo interno, riferimenti e categorizzazioni vengono meno e diventa necessario riformulare la relazione con i limiti che essa impone, accettandone l’insondabilità – a maggior ragione se a creare e giocare sono persone bianche cresciute all’interno di una cultura oppressiva come me, il cui livello di privilegio ha permesso troppo a lungo di ignorare tali dinamiche.
Le caverne, oltre che essere potenti archetipi e metafore infernali, sono luoghi abitati e attraversati da prima di essere stati espropriati e abusati, e nei quali la nostra venuta non ha alcunché di pionieristico, ma è piuttosto una riconnessione a una realtà collettiva più profonda.
Se la qualità simulativa del videogioco consente di riprodurre fantasie imperialiste attraverso la “messa in gioco” di attitudini oppressive interiorizzate in modo apparentemente innocuo, permette anche, di contro, di relazionarsi a storie, luoghi e agentività in grado di mettere queste stesse fantasie in discussione e quindi proporne altre possibili.
Giocando sotto terra, tutto inizia a convergere quando si presta ascolto alle voci che narrano le proprie storie. Calandosi sempre più in profondità però emergono anche tutti gli strati di parzialità e di preconcetti mai decostruiti nel raccontarle.
Nell’autostrada sotterranea protagonista di Kentucky Route Zero⁶, la Rotta Zero, l’unico modo per orientarsi è perdersi attraverso differenti “bussole” che, all’allontanarsi dalla superficie, si slegano sempre di più dalla consueta rappresentazione grafica di una mappa: centralini telefonici per il turismo di fiumi sotterranei; crocevia simbolici lungo spirali oscure; scelte poetiche ed esplorazioni testuali che non portano in nessun luogo se non presso se stessə.
La Rotta Zero è tutto ciò che non si adatta, lo spazio in cui il capitale getta luoghi, idee e persone. È lo spazio non mappato e non geografico che è stato perso quando il continente è stato colonizzato e frammentato. Soggettività portate alla deriva a causa dei debiti fuggono nel buio, tentando di abitarlo o navigarlo. Altre entità cercano invece di sfruttare le proprietà di questo luogo: uffici di reclamo, compagnie energetiche e minerarie. Quando poi lə accademichə tentano di mappare la Zero, di archiviarla, in realtà la stanno erodendo, complici del progetto coloniale-capitalista.
È palpabile però, vista la parzialità delle esperienze dellə autorə, un certo riduzionismo di classe rispetto ad altre oppressioni come il razzismo sistemico e lavorativo e una certa invisibilizzazione dell’indigenità delle terre in cui la storia si ambienta.
Durante la notte di Santa Lucia invece, le strade di Gravoi, l’immaginario borgo minerario dell’entroterra sardo in cui si ambienta Saturnalia⁷, diventano estensione della miniera abbandonata, disorientando nel passato della comunità da cui riaffiorano «l’orrore dello sfruttamento di corpi e luoghi, l’orrore del razzismo, della misoginia e dell’omofobia che rendono i protagonisti “indesiderati”, che li rendono outsider anche quando hanno sempre vissuto in questi luoghi.»⁸
In Saturnalia, lo stesso stratificato ed escheriano tessuto urbano «suggerisce che qualcosa covi sotto, figurativamente e letteralmente»⁹ manifestandosi in una creatura sovrannaturale proveniente dai recessi della miniera. L’orrore della creatura fa emergere, però, al contempo, alcune scelte non prive di bias da parte deə autorə milanesi, come l’incarnazione del demone, narrativamente giustificata, in uno dei pochi personaggi razzializzati della trama, così come quella di ambientare un racconto dell’orrore in uno dei territori più folklorizzati ed esotizzati, oltre che abusato e militarizzato, dall’occupazione dello Stato Italiano.
Se Kentucky Route Zero e Saturnalia sollevano questioni culturali e linguistiche, attraverso MINE Afrane mostra la materialità dell’oppressione coloniale e del capitalismo digitale. Nella corsa alla sostenibilità, è fondamentale considerare non solo gli impatti ambientali del videogioco e della tecnologia in forma di consumo ed emissioni, ma anche la violenza dell’estrattivismo che colpisce persone e luoghi deumanizzati e considerati sacrificabili. In questo senso pratiche di disinvestimento, riciclo e rimediazione tecnologica potrebbero indebolire la produzione, se non stravolgerla. Tuttavia, ciò che queste caverne provano a indicare è che, senza prima smantellare l’impero al suo cuore e sostenere materialmente le lotte di decolonizzazione delle comunità oppresse per l’autodeterminazione delle proprie vite e della propria terra¹⁰, non vi potrà essere alcuna reale sostenibilità o giustizia.
Quando la violenza sepolta in queste caverne narrative riemerge dal suolo come uno specchio della superficie, riconoscerla per quello che è, prima di tutto dentro di noi, rende possibile cercare di abbandonarla.
Più consapevolezza si trae dalla discesa, più diventa difficile una possibile risalita: nel migliore dei casi nemmeno più tanto desiderabile. Calarsi nell’abisso è un’immolazione in grado di donare molto e togliere altrettanto, di accoglierci, dopo il nostro disfacimento tra le pareti di pulsanti arterie buie e cave, in un mondo nuovo, sicuramente diverso da quello lasciato al di là della soglia.
¹ William Crowther, Don Woods, Patricia Wilcox, Colossal Cave Adventure, 1976.
² Akwasi Bediako Afrane, MINE, 2022.
³ Giulia Trincardi, Scavare nell’Ignoto: intervista ad Akwasi Bediako Afrane su MINE, Triennale.org, 17 settembre 2022.
⁴ Meghna Jayanth, White Protagonism and Imperial Pleasures in Game Design #DIGRA21, Medium.com, 30 novembre 2021.
⁵ Jerz Dennis, Cave Gave Game: Subterranean Space as Videogame Place, Electronic Book Review, 2015.
⁶ Cardboard Computer, Kentucky Route Zero, 2013-2020.
⁷ SantaRagione, Saturnalia, 2023.
⁸ Matteo Lupetti, Perdersi in un paesino italiano è l’avventura horror definitiva, Vice.com, 24 febbraio 2023.
⁹ Ibidem.
¹⁰ Eve Tuck, K. Wayne Yang, Decolonization is not a metaphor, in Decolonization: Indigeneity, Education & Society, vol. 1 n. 1, Utoronto.ca, 17 settembre 2012.
Carlo Di Benedetto (Milano, 1999) è laureato in Nuove Tecnologie dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Attualmente frequenta il biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso la stessa istituzione milanese. Nella sua pratica, approfondisce teorie e pratiche anticoloniali in relazione al contesto europeo e italiano – specificatamente a quello sardo – ponendo attenzione alla cultura visuale e alle tecnologie digitali applicate all’arte, con particolare interesse nei confronti del videogioco e ai processi di estrattivismo materiale e culturale cui questo è legato.
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