Bookcity #Dopo

Accademia di Belle Arti di Brera, Milano

20 novembre 2021

Mondeggiare altrimenti, abitare la soglia è il workshop presentato da Genealogie del Futuro presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, in occasione di Bookcity 2021, edizione dedicata alla tematica #Dopo.

Mondeggiare altrimenti, abitare la soglia

workshop

Prendendo spunto dal libro Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo (Armillaria Edizioni, 2020) dell’antropologo Matteo Meschiari, l’evento si è svolto come un laboratorio per la creazione di una fabula collettiva.

Partendo dalla condivisione di sogni recenti, abbiamo cercato di individuarne motivi ricorrenti ed elementi chiave a formare l’incipit di una storia che sarebbe stata costruita dallə partecipantə. Attraverso l’immaginario di tuttə, l’intento è stato quello di delineare la possibile cosmogonia di un futuro in bilico tra il dispotico e l’utopico, alla luce dei marcatori narratologici e la riflessione sui 4 –cene proposti dall’autore nel libro, con particolare riferimento all’Onirocene. 

Mi sveglio in un’interminabile distesa di cemento. Nulla all’orizzonte. Sopra di me non c’è nessun cielo, ma il vuoto: così nero e profondo da sentirmi risucchiato ogni istante che passo a guardarlo. Nonostante la totale assenza di altri segni di vita mi sento osservato. All’improvviso,  mi ritrovo a camminare al piano terra di un palazzo. Percorro  una scala monumentale con un tappeto rosso, non vedo il soffitto perché il palazzo è altissimo e non vedo la fine della scala, come se percepissi la vastità che è intorno a me ma non riuscissi ad alzare lo sguardo. Uno squarcio interrompe questa quiete: la notte viene illuminata da delle torce e vengo circondata da un numero esorbitante di bestie, e non tuttu sono umani. La terra trema, si alza il vento: sento che posso iniziare a fluttuare, ma un enorme gatto nero mi si para davanti. Ho perso il momento e i corpi iniziano a inseguirmi…..

Bibliografia

Il workshop è stato guidato dalla lettura di alcuni estratti bibliografici legati ai marcatori narratologici che Meschiari  reputa necessari per parlare e scrivere dell’Antropocene: Terre | Deserti, Animali | Epidemie, Cosmo | Collasso; e dai riferimenti alla filosofa e biologa femminista Donna Haraway e alla sua teorizzazione della SF: Science Fiction, Speculative Fabulation, String Figures, So Far.

L’età che è appena iniziata è diversa da tutte quelle che la storia – umana e non umana – ha registrato finora. Non è il risultato della deviazione minima di una manciata di elementi del passato. Nè è la conseguenza della comparsa di nuovi occhi e nuove menti che osservano il mondo. 

La rottura con il passato è molto più importante. Non sono le persone del pianeta a essere cambiate. È il pianeta stesso che si è trasformato. 

[…] Siamo su un pianeta diverso da quello che i nostri antenati hanno conosciuto, descritto, dipinto e fotografato. […] Siamo pionieri: nuove Eve e nuovi Adami, costretti a esplorare il mondo, a dare nomi alle cose, a bruciarci la lingua assaggiando sapori che nessuno ha mai provato, a sbucciarci le ginocchia camminando su territori finora disabitati. 

Contrariamente al mito biblico, però, siamo noi che dobbiamo trasformare questo nuovo pianeta in un giardino. Non abbiamo via d’uscita. Non abbiamo altre soluzioni. 

Non siamo sue figlie e suoi figli e la Terra non è nostra madre. Il legame è ancora più forte, più, radicale, più inevitabile. La nostra vita è intimamente legata al suo corpo: viviamo nel suo corpo e del suo corpo.

Malgrado tutto, dobbiamo tutto alle pietre. 

Viviamo principalmente in edifici di pietra. Non sono più grotte, ma enormi costruzioni minerali che modelliamo nelle forme più diverse. Passiamo la maggior parte della giornata circondati da pietre di ogni tipo. Mangiamo, dormiamo, facciamo l’amore, cuciniamo, ci laviamo e ci rigeneriamo negli spazi di pietra.  È tra i muri di pietra di diversa composizione chimica che pensiamo, immaginiamo, sogniamo, scriviamo, disegniamo e costruiamo opere d’arte. 

[…] In fondo non siamo mai usciti dall’età della pietra.

È come se trasferissimo sempre più della nostra vita nel suo corpo. È come se avessimo fatto della Terra un’appendice, una protesi della nostra anatomia. Questa umanizzazione della Terra è stata chiamata Antropocene. Volevamo acquisire tutti i poteri della Terra, prendere possesso di tutto il potere delle pietre, occupare la materia del pianeta con i nostri pensieri, le nostre emozioni, la nostra vita. Era una forma inconscia di ossessione narcisistica: pretendevamo a tutti i costi che il nostro volto si riflettesse su quello del pianeta. Abbiamo cercato di nascondere le sue apparenze.

Siamo a casa ovunque: tutto è abitato o è stato abitato dall’uomo, ogni porzione del globo si è trasformata in stanza, garage, cucina, sgabuzzino, bagno cosmici. Uno dei modi per descrivere l’Antropocene è che il pianeta stesso è diventato casa. Non c’è più nessuna forma di esteriorità, non c’è più nessuna forma di alterità spaziale. La città è finita anche per questo: non possiamo più uscire di casa. Non è affatto una questione di quarantena e di lockdown. La casa ha incluso così tanto mondo e così tanto pianeta da non lasciare più alcuno spazio residuo. 

[…] Non si tratta di uscire dall’età della pietra e della casa ma di rendere le pietre e le case differenti, più sottili, più duttili. Dobbiamo cercare di immaginare case capaci di trasformarsi rapidamente come rapidamente può cambiare il clima o il tempo. Il compito dell’alchimia era la sintesi della pietra filosofale: non un’altra struttura delle pietre, ma il principio che permette di trasformare ogni pietra in qualsiasi altra forma e quindi di affermare l’unità e l’equivalenza di ogni centimetro della carne del pianeta. La casa del futuro dovrebbe essere questa pietra filosofale: il principio che permette a tutte le cose di trasformarsi tra di loro e a ogni vita di sapersi equivalente a qualsiasi altra vita. (pp. 120-127)

Per riprendere un’antica maledizione cinese, si puó dire che viviamo realmente in tempi interessanti. Uno degli aspetti più interessanti di questi tempi, come peraltro si è ampiamente osservato, è la sua incontrollata accelerazione. Il tempo è fuori sesto, e scorre sempre più rapidamente. “Le cose cambiano così velocemente che per noi è difficile star loro dietro” , constatava recentemente Bruno Latour. Il filosofo faceva riferimento allo stato della conoscenza scientifica del problema, ma possiamo dire che ormai è il tempo stresso, in quanto dimensione in cui si manifesta il cambiamento (il tempo come “numero del movimento”, direbbe Aristotele) che sembra non solo subire un’accelerazione, ma cambiare qualitativamente “tutto il tempo”. Virtualmente, tutto ciò che si puó dire sulla crisi climatica diviene, per definizione, anacronistico, sfasato; e tutto cio che deve essere fatto al riguardo è necessariamente troppo poco, ed è ormai troppo tardi – too little, too late. Questa instabilità meta-temporale si lega ad un’improvvisa insufficienza di mondo[…] che scatena in noi tutti qualcosa come un’esperienza di decomposizione del tempo (la fine) e dello spazio (il mondo), così come il sorprendente cedimento di queste sue grandi forme condizionanti della sensibilità verso lo statuto di forme condizionate dall’azione umana. (pp. 35-36).

***

Resta chiaramente la possibilità di una versione mito-cosmologica ulteriore: quella per cui è all’ inizio dei tempi, piuttosto che alla fine, che il mondo è sottratto alla correlazione con l’umano. Una versione, insomma, in cui l’essere umano è posto come empiricamente anteriore al mondo. Questa ipotesi viene esplorata in numerose cosmologie amerindie. E’ opportunamente riassunta nel commento che apre un mito degli Yawanawa, popolo di lingua pano dell’Amazzonia occidentale raccolto da Miguel Carid: “ L’azione [del mito] si svilupa in un tempo in cui ‘non c’era ancora niente, ma le persone esistevano già’”. La versione degli Aikewara, tribù tupi che vive all’altro estremo dell’ Amazzonia, riportata in epigrafe, vi aggiunge questa nota curiosa: non c’era nulla nel mondo, solo umani – e tartarughe!

In origine dunque tutto era umano, o meglio, niente era umano ( eccetto le tartarughe, secondo i nostri Aikewara). Un numero considerevole di miti amerindi, e forse un po’ meno frequentemente di diverse altre regioni etnografiche, immaginano l’esistenza di un’umanità primordiale (sia semplicemente presupposta, sia fabbricata da un demiurgo) come la sola sostanza o materia a partire da cui il mondo sarebbe andato formandosi. Si tratta dunque di racconti sul tempo prima dell’ inizio dei tempi, un’ era o un eone che potremmo chiamare “pre-cosmologico”. Dopo una serie di peripezie, differenti porzioni di quest’umanità originaria, “primigenia” – non completamente umana poichè, sebbene antropomorfa e dotata di facoltà mentali identiche alle nostre, questa razza primordiale possedeva una grande plasticità anatomica e una certa inclinazione a condotte immorali (incesto, cannibalismo) – si trasformano, in modo spontaneo o in seguito all’azione di un demiurgo, in specie biologiche, elementi geografici, fenomeni meteorologici e corpi celesti che compongono il cosmo attuale. La parte che non si è trasformata, e che è rimasta essenzialmente uguale a sè stessa, è l’umanità storica, o contemporanea. (pp. 141-142)

Viveva come una pianta. Il ritmo della sua vita era più vegetale che umano. Era incline a scivolare lenta nel sonno, lo faceva a intervalli regolari. Restava inattiva, immobile, con le mani incrociate sulle ginocchia, la testa leggermente inclinata verso una spalla, lo sguardo diritto davanti a sé. A volte bastava una sciocchezza. Un’ape stremata e smarrita tra le pieghe della tenda che cercava di risalire con pazienza, a scatti, fermandosi per radunare le forze. Di solito prima di riprendere il volo l’ape si protendeva verso l’alto; la donna aspettava il momento in cui l’insetto sarebbe caduto, desiderando che avvenisse e allo stesso tempo temendolo, così presa dalla miseria di quella creatura da avere i palmi sudati. Oppure si limitava a osservare il vorticare preciso del pulviscolo nella luce, tra la cassettiera e il tappeto, trovando una consolazione segreta in quel movimento regolare. Seguiva i rivoletti d’acqua che scorrevano sui vetri sporchi, oppure si crogiolava in una delle sue afflizioni interminabili che non erano mai letali – sembrava le prolungasse per il semplice gusto di farlo – dalle quali riemergeva senza fretta, con gli occhi spalancati, una sfumatura bluastra sulla pelle, come abbagliata dalla luce dopo essere uscita da una caverna.

* * *

La mattina dopo, aveva le mani di foglia aperte. Il fidanzato andò a trovarla. Era irritato, parlava a testa bassa.

«Senti, ci ho pensato a lungo. Devo proprio dirtelo. Ho conosciuto una persona… una ragazza, la sorella di un collega. È dolce, ha la testa sulle spalle… a suo modo ti assomiglia. Mi hai detto tu che la vita va avanti. Ma non posso abbandonarti.Le nostre vite sono intrecciate, Ania: vuoi venire al nostro matrimonio? Ti va di vivere con noi?»

Dalla finestra trapelava una leggera brezza. Accarezzava il tronco, si intrufolava tra i rami. Le foglie in cima alla pianta si piegarono un po’, in segno di tacita approvazione. George si chinò, sollevò la conca di ceramica pesante. Per un attimo, le foglie si agitarono, tremarono.

Ma presto riassunsero un’immobilità sognante. Quando Ania varcò la porta tra le braccia del giovane uomo, sua madre, nei recessi della cucina, strinse il pugno attorno al manico di una padella, voltando le spalle alla coppia.

* * *

George la piantò in giardino, in mezzo al prato. Le radici erano libere di respirare; lei lo ringraziò ondeggiando il fogliame, felice. Poco tempo dopo, durante una mattinata di sole, lui convolò a nozze. La sposa minuta e dalle gote pallide fluttuava tra gli invitati, leggera come una ninfea. Qualcuno ballava sotto foglie bagnate di luce lunare.

Quell’estate, l’albero fece spuntare dei fiori bellissimi. (p. 205 – 212)

Sin dall’Illuminismo, i filosofi occidentali ci hanno proposto una Natura maestosa e universale, ma anche passiva e meccanica. Natura come scenario e risorsa per le intenzioni morali dell’Umano, in grado di controllarla e addomesticarla. Il compito di ricordarci delle attività vitali di tutti gli esseri viventi, umani e no, veniva lasciato agli autori di favole, anche non occidentali e non civilizzati. 

Da allora sono accadute diverse cose che hanno compromesso questa divisione di ruoli. Prima di tutto, addomesticare e controllare la natura ha prodotto un tale pandemonio che non sappiamo neanche più se la vita sulla Terra possa proseguire. In secondo luogo, intrecci tra specie un tempo ritenuti solo materia di fiabe sono ora diventati oggetto di seri dibattiti tra biologi ed ecologisti, che mostrano come la vita abbia bisogno dell’interazione tra diversi tipi di esseri viventi: gli umani non possono sopravvivere calpestando tutti gli altri.

[…] 

E’ giunto così il momento di individuare nuovi modi di raccontare storie vere che vadano oltre i primi princìpi civilizzatori. Una volta che ci si è sbarazzati del binomio Umano/Natura, tutte le creature possono tornare a vivere, e gli uomini e le donne possono esprimersi senza le limitazioni imposte da una razionalità di vedute troppo strette. Queste storie, non più relegate a un sussurro nella notte, potrebbero essere allo stesso tempo vere e immaginarie. Come spiegare altrimenti il fatto che qualcosa viva nel pandemonio che abbiamo scatenato? (p. 11) 

Che cosa fate quando il vostro mondo comincia a crollare? Io vado a fare una passeggiata e, se ho davvero fortuna, trovo funghi. I funghi mi riportano in me, non soltanto – come i fiori – per i loro colori sgargianti e i loro profumi, ma perché spuntano in modo del tutto inaspettato, ricordandomi quanta fortuna ho avuto nel trovarmi proprio lì. Allora so che esistono ancora piaceri tra i terrori dell’indeterminazione. 

Il terrore naturalmente dilaga, e non solo per me. In tutto il mondo il clima è fuori controllo, e il progresso industriale si è dimostrato molto più letale per la vita sulla Terra di quanto si immaginasse un secolo fa. […] La questione non è solo la paura che nuovi disastri irrompano: ci ritroviamo senza bussola, non abbiamo più storie che raccontino dove stiamo andando e perché. […]

Ho letto che quando l’Unione Sovietica crollò nel 1991, migliaia di siberiani, di colpo privati di garanzie statali, corsero nei boschi a raccogliere funghi. […] Le vite incontrollate dei funghi sono un dono – e una guida -, quando viene meno il mondo controllato che pensavamo nostro. 

Se non posso offrivi funghi, spero almeno mi seguiate per assaporare l’aroma d’Autunno, il profumo dei matsutake, un gruppo di funghi aromatici selvatici molto apprezzati in Giappone. Sono funghi amati perché inaugurano la stagione autunnale. Il loro profumo evoca la tristezza per la perdita del sereno rigoglio dell’estate, ma risveglia anche la pungente intensità e la maggiore sensibilità dell’autunno. Abbiamo bisogno di tale sensibilità per affrontare la fine dell’estate serena del progresso globale: l’aroma d’autunno ridesta in noi una vita comune senza garanzie.

[…]

Si racconta che, quando nel 1945 Hiroshima fu distrutta dalla bomba atomica, la prima forma di vita a spuntare a quel paesaggio raso al suolo fu un fungo matsutake. 

Comprendere l’atomo è stato il punto culminante dei sogni dell’umano ossessionato dal controllo sulla natura. Ma ha segnato anche l’inizio della fine di quei sogni. Di colpo ci siamo resi conto che gli umani erano in grado di distruggere la vivibilità del pianeta. Questa consapevolezza è solo aumentata con le nostre progressive conoscenze a proposito di inquinamento, estinzione della specie e cambiamento climatico. Con quali tipi di perturbazioni antropiche possiamo convivere? 

[…] Se vogliamo convivere con la precarietà non basta solo inveire contro chi ci ha portato qui (anche se farlo sembra comunque utile, non sono contraria). Dovremmo provare a guardarci attorno e osservare questo strano nuovo mondo, e dovremmo ampliare gli orizzonti della nostra immaginazione fino ad abbracciarne i contorni. Qui ci vengono in soccorso i funghi. La prontezza con cui i matsutake spuntano in paesaggi devastati ci permette di esplorare le rovine in cui ora abitiamo tutti. 

I matsutake sono funghi selvatici che vivono in foreste perturbate dall’umano. Come topi, procioni e scarafaggi, sono disposti a tollerare alcuni dei disastri ambientali causati dall’umano. Eppure, non sono nocivi; sono una costosa prelibatezza – almeno in Giappone, dove a volte raggiungono prezzi stellari che li rendono i funghi più cari della Terra. Grazie alla loro capacità di nutrire gli alberi, i matsutake aiutano le foreste a prosperare in luoghi ostili. Seguire le tracce dei matsutake ci apre alla possibilità di coesistenza all’interno di perturbazioni ambientali. Non è una scusa per arrecare altri danni, ma un esempio tangibile di sopravvivenza collaborativa. (p. 23 – 27)

Nell’ottobre 1913, mentre ero in viaggio da solo, durante il giorno fui improvvisamente sopraffatto da una visione: vidi una spaventosa alluvione che inondava tutti i bassopiani settentrionali situati tra il Mare del Nord e le Alpi. Andava dall’Inghilterra alla Russia e dalle coste del Mare del Nord fin quasi alle Alpi. Vedevo i flutti giallastri, le macerie galleggianti e la morte di innumerevoli persone. Questa visione durò circa due ore, mi sconcertò e mi fece star male. Non riuscii a interpretarla. Passarono due settimane e la visione ritornò, ancora più intensa di prima, Una voce interiore mi diceva: “Guarda bene , è tutto vero, sarà proprio così. Non puoi dubitare”. Lottai ancora per circa due ore contro questa visione, ma essa non mi abbandonava. Mi lasciò esausto e sconcertato. E pensai che la mia mente fosse ammalata. Da quel momento tornò la paura del mostruoso evento che pareva incombere immediatamente su di noi. Una volta vidi anche un mare di sangue ricoprire i paesi nordici. Nel 1914, all’inizio e alla fine del mese di giugno, feci per tre volte il medesimo sogno. Ero in terra straniera e all’improvviso, di notte e proprio in piena estate, tutti mare e i fiumi ne erano rimasti ghiacciati, e gelata era ogni forma di vegetazione. Il secondo sogno era molto simile al primo, mentre il terzo era così: mi trovavo in Inghilterra. Era necessario che tornassi in patria il prima possibile. Vado a casa e trovo che in piena estate era tutto ghiacciato, un freddo mostruoso che aveva congelato ogni forma di vita. Lì c’era un albero fronzuto, privo di frutti, le cui foglie si erano trasformate, per il gelo, in dolci grappoli, colmi di un succo salutare. Io li coglievo e li offrivo a una grande folla in attesa. (p. 11)

[…] Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo…Ci sei? Sono tornato. Sono stanco anima mia, troppo a lungo è durato il mio vagare. (p. 18)

[…] Come psichiatra incominciai a preoccuparmi di avere delle psicosi. In quel periodo stavo preparando una conferenza sulla schizofrenia e continuavo a ripetermi: “è di me che parlerò!” La conferenza era lo stesso anno dei miei tre sogni sul Mare del Nord. Il 31 Luglio 1914 appresi dai giornali che era scoppiata la guerra e finalmente compresi. Quando il giorno dopo tornai a casa non c’era nessuno più felice di me; adesso ero certo che non ero schizofrenico. Capii che i sogni e le visioni che avevo avuto dal sottosuolo dell’inconscio collettivo. Non mi restava che approfondire questa scoperta. Lo cerco di fare da quarant’anni. (p. L1)

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