Scorticare le colonne || Spaccare le pareti
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Incontrarsi nelle crepe. Un dialogo con Bayo Akomolafe
di Deborah Maggiolo e Alessandra Sebastiano
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Composizione
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Tra il dire e il fare
di Ljuba Ciaramella e Piermario de Angelis
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Da dove arriva la cucuzza della nonna?
di Anita Fonsati e Angela La Rosa
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Io a Milano non sogno più
di Ljuba Ciaramella e Matteo Gari per Maratona di Visione
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Autopsia di una domanda
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di Ljuba Ciaramella e Piermario De Angelis
Bread is the most technological object man has ever encountered, so solid and ancient as to be taken for granted. Grafting it, replacing it, hybridizing it with the shoes, with walking, with standing upright, is a gesture of cultural archaeology that ironically challenges our hierarchies of material values.
(Luca Trevisani, Walking Loaves, Roma, NERO edizioni, 2022)
Prendi un pezzo di pane, posizionalo davanti ai tuoi occhi, a portata di mano. Toccalo e annusalo con il naso, rompilo con le dita, senti la rottura con le orecchie e poi mangialo con il corpo.
Una volta compiuto questo piccolo rituale, ognuno secondo il proprio tempo personale, possiamo provare a immaginare il pane dentro il corpo, oramai talmente dentro che non si vede più, anche se è presente. Ci si può anche ricordare, con gli occhi degli antenati che non si conoscono, del pane arcaico. Quella maglia di batteri e micro-organismi non umani che ha messo in moto e accompagnato l’intera vicenda umana sempre occupando una posizione di mezzo in un certo senso sconcertante, in bilico tra cultura e sopravvivenza, fame e desiderio.
Che tempo verbale si deve utilizzare quando si parla di pane? Quali popoli, geografie, storie, saltano alla mente? Il pane è sempre stato un processo: un cibo indefinibile in cui i tempi, non solo verbali, collidono, così come tutte le pratiche che dal pane partono e nel pane si confondono. Ipotizziamo che tra queste ci sia anche la pratica del dialogo, con le parole a fare da farina, la voce che diventa acqua e la comunità che nel mentre si crea come una maglia glutinica, in cui i due elementi si uniscono, si cambiano.
Cosa vuol dire / fare il pane? è stato questo impasto effimero fatto di parole e di farine reali, perché tra le voci deə partecipantə il pane poi si è fatto veramente, con i muscoli e i palmi delle mani: discorso sul pane ma anche il pane come amalgama del discorso stesso. Per questo l’interrogativo che fa da titolo è volutamente lasciato in sospeso, tra teoria e pratica, “tra il dire e il fare”.
Anche le parole di Walking Loaves, progetto a cui l’artista Luca Trevisani approda dopo una profonda ricerca plastica ed editoriale sul pane, germinano come spore tra le righe di un altro testo del 1980 dal titolo emblematico – Il pane selvaggio – scritto dal filologo e antropologo Piero Camporesi.
Parole, quelle di Trevisani, che richiamano somaticamente le sculture di suole di scarpe realizzate metodicamente con pani, farine e forme sempre diverse.
«è tempo di disiscrivere la tua immaginazione dai diagrammi precotti in cui ti trovi, e di giocare con una pratica artistica al di là dello schema noioso stabilito» (Luca Trevisani, Walking Loaves, Roma, NERO, 2022): il pane diventa un’operazione dialettica per far vacillare l’arena del discorso, creando una contro-storia inedita e ironica, imperniata su questo oggetto polivalente da cui sono emerse forme, comunità e rituali collettivi o, per dirla sempre con Camporesi, «da cui dipendono la vita, la morte, il sogno» (Pietro Camporesi, Il pane selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 2016, pp. 3-4).
Tutto si mescola e si compenetra, come in un impasto mai finito tra le parole e le cose. Alla luce di ciò, l’aspetto sconcertante è che il pane si fa, non permettendo né di soffermarsi solamente sul suo valore simbolico, né di portare avanti un discorso che sia pulito, sterilizzato, lontano dalla realtà sporca della relazione. Anche quest’ultimo, quindi, si sporca, così come le mani, quando affondano nel miscuglio fatto di acqua e farina: fare il pane è essenzialmente una pratica di mescolamento e agglomerazione di elementi, quando più mani partecipano al movimento che scandisce la complessità dell’impasto.
Davide Longoni, maestro panificatore, spiega come aggiungere l’acqua quando serve, aspettare quando sembra che invece si debba procedere con maggiore velocità, togliere tutta la massa appiccicosa di dosso e unirla a quella forma compatta e soffice, che sa di lievito o di cose conosciute. Il gesto è lo stesso da secoli.
Longoni si inserisce nell’imprevedibilità che il composto porta con sé, intraprendendo un percorso di studio sulle farine, semi e lievitazioni, affermandosi così tra le personalità di riferimento della panificazione moderna. Un’attività, la sua, in cui la pratica del pane lievita come energia culturale in quartieri e comunità del territorio milanese, quando nuove dimensioni sensoriali nascono tra la frenesia urbana e l’attesa dell’impasto che cresce.
Anche Cosa vuol dire / fare il pane?, infine, è una domanda che, letteralmente, si fa. “Tra il dire e il fare”, vivendo le sfumature che sconfinano tra i diversi ambiti, il pane diventa innesco di un discorso e di un incontro collettivo: una questione di ospitalità radicale e sempre sfuggente, allo stesso tempo estetica, culturale e politica.
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