Scorticare le colonne || Spaccare le pareti
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Incontrarsi nelle crepe. Un dialogo con Bayo Akomolafe
di Deborah Maggiolo e Alessandra Sebastiano
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Composizione
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Tra il dire e il fare
di Ljuba Ciaramella e Piermario de Angelis
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Da dove arriva la cucuzza della nonna?
di Anita Fonsati e Angela La Rosa
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Io a Milano non sogno più
di Ljuba Ciaramella e Matteo Gari per Maratona di Visione
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Autopsia di una domanda
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di Deborah Maggiolo e Alessandra Sebastiano
E se, quando ci incontriamo, ci scambiassimo semi che sanno cantare, storie di spedizioni psichedeliche che attraversano i portali dei normali stati di coscienza e ci scambiassimo saggezze e rituali su come navigare l’ambivalenza della vita?
(Bayo Akomolafe, Queste terre selvagge, oltre lo steccato. Lettere a mia figlia per far casa sul pianeta. Èxòrma, 2023, p 18)
A cosa pensiamo quando parliamo di ospitalità?
Se dovessimo immaginare la xenìa, fare quindi quell’operazione di rendere un concetto astratto – un’idea invisibile – un esempio concreto, forse ci descriveremmo mentre, astanti sull’uscio di una porta, siamo invitatə a entrare; ci vedremmo accomodarci, sederci e mangiare a una tavola non nostra, dormire in un letto non nostro. Nel corso della vita, ci sarà forse capitato di essere statə ospiti di qualcuno, o sentirci ospiti – accoltə – in un luogo che non ci è solito chiamare casa. È anche altrettanto probabile che ci sia successo di ospitare qualcunə.
Se potessimo descrivere una sensazione che ci ricorda l’ospitalità, probabilmente sarebbe un tepore avvolgente, come il clima che da un camino lentamente si diffonde in una stanza. Sentiremmo di non appartenere a quel luogo, ma ci sentiremmo bene, al sicuro.
Il concetto di ospitalità, però, non si esaurisce da solo, è legato ad altre idee, parole che gli sono amiche: casa, abitare, sono tra queste.
Nel periodo in cui abbiamo iniziato a ragionare sull’ospitalità e siamo inciampatə in xenia, ne abbiamo percepito il sapore di un ideale tanto antico che ci è parso indispensabile guardarla a fondo per scoprirvi gli aspetti contraddittori e le potenzialità. Così, come ogni parola che ci affascina e ci respinge, è stato necessario smussarla e riattualizzarla prima di renderla una pratica di cura situata e responsabile.
Anche relazione è un’amica dell’ospitalità.
Oggi, dopo averla osservata, dopo averla trattenuta in noi, e poi riportata nel mondo per costruire comunità, continuiamo a cambiarne l’aspetto, vestendo un’idea di tanti significati quante sono le voci che incrociamo.
Quando abbiamo incontrato il filosofo, intellettuale transnazionale e poeta Bayo Akomolafe lo scorso 17 maggio al C.I.Q. (Centro Internazionale di Quartiere), in occasione di Benvenuti nell’Afrocene, evento di presentazione del libro Queste terre selvagge, oltre lo steccato. Lettere a mia figlia per far casa sul pianeta (Èxòrma, 2023) con Fabrice Olivier Dubosc (traduttore del volume) e Ronke Oluwadarev, la nostra idea di xenia è uscita da noi per la prima volta e ha subito un’ulteriore stratificazione, mostrandoci un nuovo volto, più complesso, politico e urgente: la necessità di un’ospitalità radicale.
Nelle parole di Bayo abbiamo però riconosciuto lo stesso ritmo ascendente verso una dimensione “ontologica” dell’ospitalità, che fa dell’incontro una delle possibili risposte alla domanda: Come costruire comunità praticando l’ospitalità?
Affrontando i temi cari alle teorie decoloniali, alla politica ecologica e al femminismo queer, Bayo offre una riflessione sincera, forte, ma mai rassegnata, sulla crisi contemporanea. Il testo, sviluppato in forma di una serie di lettere destinate a sua figlia Alethea di tre anni, è un ricettacolo di pensieri che possano aiutarla a «far casa sul pianeta», raccontati aderendo all’affabulazione riflessiva: una modalità narrativa che, persuadendo chi legge, porta a «instaurare un legame immaginativo con il mondo». Dalle sue parole emergono immaginari, figure e mostri – come gli hush, esseri invisibili che abitano la marginalità e i confini, o Lilith, madre del mostruoso – che diventano i lasciapassare per arrivare a una nuova concezione del sé e del modo in cui viviamo.
L’autore non ha paura di parlare di dolore, perdita, turbamento, ma, anzi, è spinto dal desiderio della condivisione, perché tuttə, almeno una volta nella vita, singolarmente o collettivamente, siamo statə spogliatə di tutte le rose e ci siamo ritrovati in balia dell’inverno.
Far sconfinare le proprie fragilità e le catastrofi che ci travolgono è un esercizio di ospitalità, perché implica la condivisione. Se smarrimento e lutto fanno parte dell’esperienza dell’umanità, per Bayo gli intoppi altro non sono che un invito a mutare forma, pensiero e punto di vista.
Rinunciando a uno sguardo assolutizzante, l’autore abbraccia una ontologia relazionale che consideri temporalità diverse, più complesse, variegate, in contrasto con il tempo coloniale che impone un’unica dimensione e si rivolge a un’umanità parziale. Bayo abbraccia allora le cosmologie indigene, facendo riferimento soprattutto alla comunità Yoruba da cui discende, e offre a chi legge e ascolta una nuova teoria dell’immanenza, fatta di relazioni, contaminazioni e vie di fuga che portano a un nuovo concetto di sé.
L’io, limitato nella persona singolare, ha bisogno di considerare le pluralità di intrecci che lo ospitano e che ospita; ha bisogno di rendere i confini permeabili per fare in modo che nell’erranza, che coinvolge il movimento e l’inciampo, si possa sempre mutare. (Fabrice Olivier Dubosc, Bayo Akomolafe: ripensare l’Antropocene; Bayo Akomolafe Afrocene e futuro)
Incontrare, incontrarsi, ingrandirsi o espandersi, espandere. Sono tutte azioni del sé che ci riportano all’ospitalità.
Quella di Bayo è una politica del possibile, dai molti flussi, che non propone una soluzione alla crisi, ma ci invita a fare nostri i mostri, a stare nel mezzo, ad abitare le crepe.
Se l’ospitalità è una pratica relazionale, essa ci spinge al di fuori di noi per entrare in contatto con chi, muovendosi nella stessa direzione, ritroviamo nel mezzo. Lo spazio dell’incontro, da cui si dirama la rete invisibile che ci porta a essere insieme, è anche il luogo in cui incontriamo noi stessə, dinanzi alle nostre fragilità e ai nostri privilegi.
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